24.8.11

Un male cane (post che avrei dovuto scrivere il 13.08.1986)


L'odore del cloro combatte nelle narici.
Le piccole gocce che scendono dai capelli, ancora bagnati, si oppongono al fetido respiro di quella lingua rugosa che penzola a pochi centimetri dal mio viso.
E' tutto fermo. Il sangue che cola dalla ferita all'altezza dello stomaco, quel bruciore scivoloso, le grida.

Un silenzio caldo d'estate mi circonda, ronzio leggero di api, vociare distante.
Mi accorgo che non è il rumore di adesso, non il bavoso ringhiare che vibra sul mio collo, non l'abbaiare furioso di denti ingialliti. E' il rumore di qualche istante fa.
Come se in quella scena inaspettata si fosse perso il sincrono tra audio e video.

Ho ben presente quand'è successo. Lo ripasso nella mente mentre gli occhi fissano i canini aguzzi, scheggiati in un lato, venati di nero e sangue. Mio.
Come una di quelle polaroid che mi hanno regalato, vedo l'immagine darsi corpo di fronte ai miei occhi.
Dapprima è un prato, due bambine che giocano, un signore col cane al guinzaglio. Ma è solo la nebbia.
Al diradarsi di quella pellicola fumosa, la scena muta. Non giocano ma piangono spaventate, non c'è un guinzaglio ma solo due dita intimorite che strattonano il pelo arruffato di un pastore tedesco.

La fisso nella mente molto prima di rendermi conto. La intuisco soltanto nell'attimo stesso in cui la vedo evolversi.
Il peso del cane mi fa indietreggiare ma non cadere. Le zampe sulle mie spalle lo portano a superare la mia testa col muso. E' solo un attimo.
Scivola giù aggrappandosi con le unghie alla mia carne che sa di cloro. Spinge. Spinge per risalire, e il suo alito ferroso percorre le mie spalle inseguito dal ruvido graffio di quei denti marci.
Penso che sembrano di plastica.

E io tornavo dalla piscina. Per la prima volta ero stato nella parte alta, due metri e venti. Mi avevano buttato, neanche lo sapevano che non c'ero mai stato, potevo non essere in grado di nuotare: ma lo sono stato. Slittando sul bordo liscio sono precipitato in acqua, attorno a me una processione di piccole bolle a solleticare la pelle, gli occhi che bruciavano, un sapore pungente a graffiare la gola.
E felicità. Una soddisfazione appiccicosa come il miele.

Nella corsa gracchiante di infradito in gomma, nella carezza del trifoglio sotto le piante dei piedi, nel sole che pizzicava sulla schiena bagnata: felicità.
Nella sua forma più pura, senza compromessi, senza strumenti per arrivarci, felicità di sé stessi, in sé stessi, per sé stessi.
E aveva un profumo strano quella sensazione. Caldo. Buono.

Ora l'unico sapore è quello del pelo bagnato che mi si è infilato tra le labbra.
Sento che ho paura. Sono paralizzato dalla paura.
Ma non voglio dargli la soddisfazione di vedermi piangere. E lo fisso.
Intuisco la smorfia del mio volto, ma non piango. E lo fisso.

Fino a che non sento strattonare, vedo le mani che lo tolgono di peso da me.
Adesso sì che piango.
Ma non è la paura, o il dolore, o lo scampato pericolo.

No! E' quella felicità, quell'istante perduto che mi è scivolato dalle dita appena ho aperto il pugno, l'avevo tenuto lì per tutto il tempo, difeso, protetto.
E ora è solo un'ombra che zoppica percorrendo la strada dei ricordi.

Ora c'è silenzio davvero. Un vuoto di parole mi si aggrappa al respiro.
Smarrisco i pensieri in un futuro immaginato.
Riassaporo.

Andiamo in ospedale.

2 commenti:

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