19.3.14

Billie Holiday ovvero the Lady Day after


Ci sono vite che non si possono espiare, se le si porta addosso come una colpa non recuperabile, un fardello eccessivamente pesante già ancor prima di mettersi in cammino, vite che sono di per sé dei peccati originali.

Ci sono persone che nascono per qualcosa, per cantare o per suonare, per scrivere, emozionare, cambiare le cose. E di quel qualcosa solitamente muoiono, dell'oltrepassare inquieto il recinto del consueto, tracimando di quel loro essere sé stessi, dirompendo, frantumando gli argini di una normalità inevitabilmente minacciosa.

Per esempio, c'è una grandissima cantante jazz nata nell'aprile del 1915. I genitori sono giovani, lui è un  musicista di sedici anni ma poco importa perché non ci sarà mai nella sua vita, lei di anni ne aveva appena tredici ed era una ballerina.
Iniziano così anche certe favole ma questa, vi avverto, non lo è.

La madre lavora come domestica a New York e la piccola Eleanora viene affidata a una cugina che non lesina nello sfruttarla e nel trattarla brutalmente.
A dieci anni subisce il primo stupro, uno dei tanti.
Si trasferisce quindi a New York dove si guadagna da vivere lavando pavimenti e prostituendosi in un bordello abusivo di Harlem. Spesso invece di essere pagata chiede alla matrona di poter ascoltare dischi di jazz. Musica. Almeno fino a che non viene arrestata e condannata a quattro mesi di carcere.
Uscita, prova a fare la ballerina ma non sa ballare, però cantare sì. Un produttore la sente, le fa incidere dei dischi.
È il giorno in cui nacque Billie Holiday. Aveva solo quindici anni.
Di tutta questa vita sono passati solo quindici anni e potrebbe sembrare già un lieto fine.

E invece discriminazioni, razzismo, umiliazioni, inadeguatezza, violenza, sbagli, incomprensione, alcool, droga, depressione. E jazz.
In dosi alternate, momentanee,a stravolgere quell'esistenza insicura, a illuderla di sicurezze per poi negargliele, negarsele, come se non fosse stata pronta per quella tranquillità.

Fino alla fine. In un per sempre durato soli 44 anni eppure reiterato come la più efferata delle punizioni.

Esce in questi giorni per Edizioni BD la riedizione di Billie Holiday, una delle prime opere del duo Carlos Sampayo-José Muñoz.
Un fumetto crudo, essenziale e impietoso. Dove il tempo non esiste, dove la storia della cantante americana rivive anno per anno, scena per scena, canzone per canzone, in un continuum che non ammette redenzione.

Sono solo pochi istanti in fondo, ripercorsi sensa soluzione di continuità con un altro oggi, il 1989. Irrisolti tra le ore notturne di personaggi che, a trent'anni dalla morte, cercano di capire chi fosse Billie Holiday. Chi per lavoro, chi per destino, con indifferenza o umanità, curiosità, amore, superficialità.
Non c'è uno stacco tra passato e presente, non nei disegni aspri e spigolosi di Muñoz, non nel susseguirsi di una notte dove ogni istante è costantemente corrente, dove Billie si precede nel suo morirsi addosso.
Perché talmente grave è il vizio di quella vita che gli autori non le danno via di scampo, la condannano a subirsi, di nuovo, oggi come ieri, come domani. Quasi a volerne fissare la grandezza nel più sfrontato dei ritratti, a celebrarne l'immensità nonostante il suo essere sé stessa.

E in un inesorabile replicarsi di situazioni tragiche, quel bianco e nero senza luce ci racconta il turbinare gracchiante dei dischi in vinile, quella voce che graffia l'anima, semplice e sfrontata, onesta come tutte le cose dolorose. Racconta, senza mostrarci mai una possibilità di riscatto, senza nessun giudizio, solo vita, cuore, errori, canzoni e jazz.


Gli alberi del sud danno uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue sulle radici,
un corpo nero dondola nella brezza del sud, strano frutto appeso agli alberi di pioppo.



1 commento:

  1. La sua voce non ha più bisogno del suo corpo, già...bella prova di Sampayo e Muñoz, per le favole a lieto fine si consiglia di rivolgersi altrove

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È l'ultima cosa che potrete dire in questo posto. Pensateci bene prima di scrivere le solite cazzate...